Inauguriamo con questo post una nuova sezione del nostro sito dedicata alle testimonianze – positive o negative – di quanti hanno sviluppato progetti e pratiche per rendere possibile “un altro Appennino”. Ci interessano le esperienze di chi abita – per scelta o per forza – nei borghi della montagna bolognese, cercando di svolgere attività rivolte al territorio, nell’ambito della cultura, della produzione agricola, del turismo sostenibile, della cura dei luoghi e degli esseri viventi.
Partiamo oggi con il breve racconto che ci ha proposto Carlo Maver, musicista, animatore culturale, conosciuto per i suoi concerti e le sue registrazioni, dove suona il flauto traverso e il bandoneon.
«Un po’ di anni fa, con la mia famiglia – io, mia moglie e nostro figlio di 3 anni – abbiamo deciso di trasferirci a vivere nel territorio del Corno alle Scale.
L’idea nacque dopo una visita a un carissimo amico e una gita al Corno: rimanemmo folgorati da tanta bellezza. In quel periodo cercavamo una sistemazione alternativa alla città. A fine giornata, passai la serata al bar, fino a tarda notte, con il mio amico, e come per miracolo il giorno dopo avevo già trovato casa, sembrava destino.
Mio figlio doveva cominciare la scuola e la nostra preoccupazione di non trovare posto era alta; telefonai per avere informazioni sulla situazione della materna e il responsabile, alla mia domanda se ci fossero ancora posti disponibili, rispose : – Se ti iscrivi ti fanno una festa perchè sono vicini al numero minimo per restare aperti.
La decisione fu presa e partimmo, affittando, ad un prezzo non troppo ragionevole per la montagna, una casa bellissima e completamente ristrutturata. Una casa solitaria con una vista meravigliosa e i proprietari che si presentavano raramente, nei fine settimana.
Il primo anno fu un idillio, la scoperta di un territorio fantastico da un punto di vista naturalistico, la possibilità di andare a sciare quando si vuole in 15 minuti, la possibilità di godersi passeggiate al Corno durante la settimana in completa solitudine: sembrava mio, era qualcosa di magico.
Prima di trasferirmi, pensavo che per vivere una natura così bisognasse andare in Alaska: la mattina mi svegliavo con i daini che facevano a cornate sotto la mia finestra, accompagnavo mio figlio a scuola, a piedi attraverso i boschi, fra cinghiali e caprioli, raccogliendo funghi e fragole.
L’aria di montagna nutre lo spirito, ugualmente l’acqua.
Mi sembrava di aver trovato il paradiso.
L’inserimento pareva cosa fatta e nel giro di poco tempo cominciai ad organizzare un festival musicale, in cima al Corno, dal nome: Eco della Musica. Mia moglie incominciò a formare un coro per ragazzi, attività molto rara per il luogo.
La comunità sembrava molto contenta del nostro arrivo e la gentilezza era tanta.
Sì, mi sembrava di aver trovato il paradiso.
Per le attività di mio figlio era un po’ più complicato perchè il paese non offriva molto e il primo centro sportivo, bellissimo, era a una quindicina di chilometri.
Mio figlio si era fatto un amico, che era anche nostro vicino di casa e noi diventammo amici dei genitori.
Il tema delle amicizie e delle frequentazioni dei figli incominciava ad aprirmi gli occhi su alcune questioni.
In montagna, da un punto di vista sociale, si vive su due binari: c’è una grande differenza se sei del posto e se hai parenti nel paese oppure se sei “un forestiero”.
La vita è strutturata soprattutto per persone che hanno genitori, zii e nonni in loco. Per chi non ha questa fortuna è parecchio diverso e spesso più difficile, perchè il paese non offre alternative.
Col passare dei mesi, i rapporti sociali, accontentandosi un po’, andavano abbastanza bene, eppure mi mancava qualcosa.
Incominciavo a sentire una sorta di impermeabilità del territorio alle fecondazioni esterne, non sentivo la volontà o il desiderio di accogliermi e inglobarmi nel tessuto sociale, nonostante io e la mia compagna avessimo competenze profonde in un campo, la musica, rispetto al quale il territorio era del tutto sguarnito.
Dopo qualche tempo, ho capito che gli interessi delle istituzioni locali erano molto più forti nei confronti di un pullman di turisti polacchi, da litigarsi con le montagne vicine, oppure per la stagione sciistica. Non c’era nessun interesse verso una nuova famiglia che poteva insediarsi nel territorio.
Questo mi ha fatto male.
Alla fine di ben 4 anni di permanenza ho realizzato che il luogo che avevo scelto era perfetto per ritirarsi, ma non adatto per costruire. Se ci si vuole ritirare, questi luoghi sono perfetti, meravigliosi.
Se invece si crede in nuovi ideali e si cerca di portare nel luogo ciò che non c’è, dandosi da fare per questo, lì cominciano i problemi, si comincia a essere di intralcio.
Personalmente credo che uno dei problemi sociali di questi luoghi è che hanno delle regole non scritte di comportamento e una sorta di incapacità al confronto, al dialogo e al cambiamento.
Per questo me ne sono andato, perchè a nessuno realmente importava di arricchire il meraviglioso patrimonio già esistente con quello che mancava.